In caso di operazioni soggettivamente inesistenti, come stabilito dalla Corte di Cassazione (sentenza n.20405/2023), spetta all’Amministrazione finanziaria provare, sia l’alterità soggettiva dell’imputazione delle operazioni, sia la malafede del contribuente, ovvero che questi disponeva di indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto in ordine alla sostanziale inesistenza del contraente.
“Secondo la Giurisprudenza unionale, tale prova può dirsi raggiunta qualora l’Amministrazione fornisca attendibili indizi idonei ad integrare una presunzione semplice. È sufficiente – sottolinea Maria Vittoria Tonelli, consigliere d’amministrazione della Cassa di previdenza dei ragionieri e degli esperti contabili – che gli elementi forniti si riferiscano anche solo ad alcune fatture o circostanze rilevanti per la qualificazione della società, ovvero a singole indicazioni significativamente riferibili alla sfera di conoscenza o conoscibilità dell’imprenditore, pur escludendo ogni automatismo probatorio o criterio generale predeterminato”.
La Suprema Corte precisa poi che l’onere dell’Amministrazione finanziaria sulla consapevolezza del cessionario va ancorato al fatto che questi, in base a elementi obbiettivi e specifici, conosceva o avrebbe dovuto conoscere che l’operazione si inseriva in una evasione all’IVA.
“Raggiunta tale prova – prosegue Tonelli – spetta al contribuente dimostrare – oltre all’effettività del suo interlocutore – la propria buona fede, ossia che non disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale dubbio ovvero, come sopra osservato, a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto”.