
Con la sentenza n.13858/2025, la V Sez. Penale della Corte di Cassazione ha stabilito che la semplice conoscenza di prelievi sospetti dalle casse aziendali non basta a configurare un concorso nel reato di bancarotta fraudolenta.
I Supremi Giudici, accogliendo il ricorso di un consulente, hanno annullato con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Napoli (che aveva condannato tutti gli imputati), per gravi carenze motivazionali. In particolare, per quanto riguarda il ruolo del professionista esterno alla gestione.
“La tesi della difesa, ritenuta non manifestamente infondata – ha sottolineato Guido Rosignoli, vicepresidente della Cassa di previdenza dei ragionieri e degli esperti contabili – sosteneva che il consulente non aveva alcuna influenza sulle scelte operative degli amministratori, tutti appartenenti allo stesso nucleo familiare, e quindi direttamente responsabili delle decisioni di non adempiere ai debiti fiscali o di privilegiare alcuni fornitori. Al centro della decisione della Suprema Corte – prosegue Rosignoli – c’è il chiarimento secondo cui la conoscenza della gestione opaca della società non implica automaticamente una responsabilità penale. Il consulente, come spiegato dagli Ermellini, non aveva obbligo di denuncia, né risultano prove concrete del suo coinvolgimento attivo in operazioni distrattive o nella manipolazione artificiosa della contabilità”.
Secondo quanto emerso nel ricorso, la Corte d’Appello non avrebbe motivato in modo sufficiente la presunta partecipazione del professionista al reato, in particolare rispetto all’ipotesi che egli avesse rafforzato la volontà criminosa degli amministratori.