Dal Poz (Federmeccanica): Il 2020? L’anno della tempesta perfetta

Per il presidente uscente la sfida più grande sarà rispettare i tempi del Pnrr

Alberto Dal Poz Presidente Federmeccanica

La pandemia, l’aumento del costo delle materie prime e dei dazi, la crescita della Cina mentre il resto del mondo era chiuso in casa: per Alberto Dal Poz, presidente uscente di Federmeccanica, il 2020 è stato travolto dalla tempesta perfetta, con conseguenze a catena che si vedranno ancora nei prossimi mesi. Il Pnrr è fondamentale per rilanciare l’economia del nostro Paese, ma Dal Poz avverte: la parte difficile non è la programmazione, ciò che serve davvero è dare concreta attuazione al piano, rispettandone le tempistiche.

I dati emersi dall’ultima Indagine Congiunturale non sono positivi. Quali sono, a suo avviso, le situazioni più preoccupanti?
I dati sono negativi, ma io sono ottimista per natura e, in generale, come Federmeccanica siamo molto attenti sia a quelli che sono i dati puntuali delle rilevazioni sia alle voci degli imprenditori, che rappresentano l’anima della nostra Federazione. Il 2020 si è chiuso con un crollo del -13,5% dell’attività produttiva metalmeccanica, causato dal periodo più acuto, cioè l’inizio della pandemia: i mesi di marzo, aprile, maggio e giugno dello scorso anno hanno minato profondamente tutti i nostri indicatori, le aspettative, l’uso della cassa integrazione. Chiaramente non siamo stati i soli. In Italia si è usato il codice Ateco come linea di demarcazione tra chi poteva restare aperto e chi doveva chiudere, altri Paesi hanno utilizzato strumenti differenti e, in qualche caso, hanno limitato le chiusure o le hanno concentrate soltanto in momenti e ambiti particolarmente critici.

Parliamo di export. Il settore delle esportazioni verso i principali partner europei è crollato. Vede segnali di ripresa in questa direzione?
Dopo i quattro mesi del 2020 molto difficili, la ripresa è stata caratterizzata da una distribuzione a macchia di leopardo. Alcuni settori molto impattanti sulla meccanica italiana, come l’automotive, le macchine utensili o la meccanica collegata alle costruzioni, a partire da ottobre hanno cominciato a riprendersi in modo robusto. A ripartire non è stata soltanto l’industria sul mercato interno, ma sono cresciute anche le esportazioni, pur facendo registrare, in questo campo, un dato negativo sull’anno. Ad esempio, nel 2020 l’export verso la Germania – il primo Paese europeo verso il quale la meccanica italiana esporta – è diminuito dell’8,4%, verso la Francia del 14,5%. Nel momento in cui il mondo ha cominciato a riprendersi, e in particolar modo la Cina, l’internazionalizzazione delle imprese italiane è stata un’ancora di salvezza. Il 2020 si è concluso con dati meno gravi di quelli che, a metà anno, ipotizzavamo e questi primi tre mesi del 2021 lasciano ben sperare.

Il settore delle esportazioni, quindi, pur avendo fatto registrare dati molto negativi, è stato quello che, in coda d’anno e all’inizio del 2021 ha dato un segnale di ripresa più forte?
Il dato dell’export sul 2020 è senza dubbio negativo, ma poteva andare peggio: poteva mancare quell’elemento fondamentale che consente di investire ancora, cioè la fiducia e la visione. Che ci sia incertezza è ovvio, ma se fosse venuto meno questo aspetto, il clima sarebbe stato ancora più pesante. Ora siamo in un momento in cui le esportazioni stanno evidenziando segnali di ripresa, vanno piuttosto bene, soprattutto in alcuni settori trainanti, come per esempio l’automotive e le macchine utensili.

 

Card DaL Poz Tavola disegno 1

Quanto tempo ci vorrà, secondo lei, per tornare ai dati pre Covid?
Le previsioni sulle tempistiche variano da settore a settore. Il dato peggiore? Quello che riguarda l’aeronautica civile, che prevede di tornare ai dati pre Covid non prima del 2023-2024. L’automotive, invece, è probabile che tornerà ad avere dati confrontabili con quelli del 2019 verso la fine del 2022. I prossimi mesi saranno decisivi e faranno i conti, da un lato, con l’impatto reale della carenza e dell’aumento dei costi delle materie prime prima e, dall’altro, con l’andamento delle vaccinazioni e della situazione sanitaria in generale.

Parlando proprio delle materie prime, cosa è accaduto? E quanto inciderà questo aspetto sulla ripresa della produzione?
Siamo convinti che ci siano molti fattori che spiegano il rincaro dei prezzi e la difficoltà di approvvigionamento delle materie prime. Nella tarda primavera del 2020, mentre il resto del mondo era nel cuore della pandemia, la Cina ha iniziato a riprendersi, con una crescita impressionante, concentrata in settori tradizionali: ha ricominciato a costruire automobili e case e a consumare materiale legati all’edilizia. Beni di consumo e investimenti da parte del governo nelle infrastrutture – fermi soltanto nei primi mesi dell’anno – sono stati la chiave dell’economia cinese per il resto del 2020. Questo non ha fatto che peggiorare quello che poi avremmo vissuto in Europa e negli Stati Uniti, proprio perché la Cina ha fatto una grossa scorta di materie prime, come l’acciaio, le plastiche, i materiali semiconduttori. Mentre la Cina cresceva, noi eravamo fermi perché le aziende erano chiuse.

Quali altri elementi hanno causato l’impennata del costo delle materie prime?
In piena pandemia, alcuni grandi produttori europei dell’acciaio hanno avviato importanti interventi di manutenzione, “sfruttando” il periodo di chiusura. Da queste operazioni, però, non si esce schiacciando semplicemente un bottone: si va incontro a un processo lento e delicato, che può avere anche esiti inaspettati con tempistiche non sempre prevedibili.
C’è stata anche della speculazione finanziaria. Molti fondi di investimento hanno agito a fini speculativi in questo settore, aumentando la difficoltà del periodo. Inoltre, pensiamo anche a quanto siano aumentati i costi per l’importazione di materie prime dall’Oriente, dalla Cina soprattutto, e l’effetto che ha avuto e che avrà la questione del Canale di Suez. Senza dubbio c’è stata una sovrapposizione di elementi negativi.

A proposito di dazi, quanto ha inciso il loro aumento sull’industria italiana?
Da sempre, Federmeccanica ribadisce l’importanza della centralità della produzione di materie prime nel nostro Paese, elemento fondamentale per la tenuta del sistema manifatturiero italiano che deve importare il 70% del suo fabbisogno perché da solo non riesce a produrre più del 30%. In questo scenario già difficile, un forte rallentamento della produzione interna nel nostro Paese, insieme al continuo peso dei dazi sulle importazioni si è creata la tempesta perfetta.
Per uscire da questa situazione, non esiste una bacchetta magica: di fronte a noi abbiamo ancora molti mesi di difficoltà prima di risolvere il tema della dinamica dei prezzi e della scarsa reperibilità delle materie prime.

Come Federmeccanica, siete soddisfatti delle azioni intraprese dal Governo per rilanciare l’economia? Quanto potrà incidere il Recovery Fund sulla ripresa dell’economia italiana?
Il Pnrr era necessario per dare attuazione al programma Next Generation Ue, che è alla base della politica di rilancio dell’Europa. Questa sarà un’occasione che non vedremo più per generazioni. È fondamentale che il nostro Paese abbia come primario obiettivo quello di essere concreto nell’attuazione di quanto è stato pianificato. Non basta programmare bene, serve dare concretezza agli investimenti nei tempi previsti. Le sei missioni previste dal Piano mettono tutti d’accordo, quindi la cosa più difficile non sarà pianificare, ma farlo rispettando i tempi: sarà la sfida più grande del nostro Paese. E’ necessario un cambiamento culturale nel nostro Paese, servono le riforme capaci di dare gli strumenti e le risorse umane necessarie per rispettare i piani, prime fra tutte quelle della Pubblica amministrazione e della Giustizia. Non utilizzare questa emergenza per farla diventare un’opportunità di cambiamento per il Paese sarebbe una follia.

Secondo lei, siamo in ritardo rispetto ai nostri competitor internazionali?
Siamo tutti allineati. Su alcuni temi noi scontiamo un ritardo maggiore perché abbiamo problemi legati a questioni precedenti la pandemia. Abbiamo dei punti di forza importantissimi da giocare, ma se c’è un aspetto che deve cambiare è quello della burocrazia. È prioritario per tutti gli attori coinvolti guardare avanti per essere concentrati sugli aspetti che portano alla reale efficienza del sistema produttivo, della rete dei servizi e della Pubblica amministrazione. Nel momento in cui c’è un’iniezione di denaro si risolve un problema, ma non è sufficiente: l’applicazione concreta dell’investimento e il cambiamento che le ruota attorno è la vera sfida.

Come se lo immagina il 2030?
Voglio pensare al 2030, come nel 2010 pensavo al 2020. Grazie anche al Pnrr e a tutti i fondi Ue, sarà sempre più centrale la cosiddetta “economia della conoscenza”. Non significa solo parlare di nuovi saperi indispensabili per il nostro sistema industriale, ma significa affiancarsi a una manifattura molto evoluta. La produzione di beni, macchinari sarà ancora centrale nel 2030 anche le nostre, aziende, spesso di dimensioni medio-piccole, hanno un’inventiva e una creatività che ha permesso loro di reinventarsi con una frequenza sorprendente. Dieci anni fa, ad esempio, non avremmo previsto di essere coinvolti da un cambiamento sempre più profondo della mobilità o dal modo in cui le industrie tradizionali hanno trasformato la produzione di beni ed energia. Credo che queste innovazioni continueranno per il prossimo decennio. Arriveremo nel 2030 con un forte substrato di Pmi dalla manifattura evoluta, cresciuta in modo parallelo a quella digitalizzazione che sta alla base dell’economia della conoscenza.