L’acciaio è uno dei materiali indispensabili per l’intera manifattura ed è anche il core business di Manni Sipre, azienda leader nel campo degli elementi strutturali in acciaio finiti dal pronto oppure prelavorati. Una realtà partita da Verona e cresciuta fino a dimensioni globali nel corso degli anni, differenziando le proprie attività e arrivando a creare un vero e proprio gruppo industriale: Manni Group. Massimo Fabbri ne è l’amministratore delegato e con lui abbiamo analizzato la situazione attuale della filiera dell’acciaio, e non solo.
Può raccontarci brevemente la storia di Manni Sipre e quella della sua parabola come imprenditore?
Manni affonda le radici nel secondo dopoguerra quando Luigi Manni, mio nonno, iniziò, avviò una società individuale per il commercio di prodotti siderurgici di recupero. Sotto l’impulso del figlio Giuseppe, negli anni ‘70 Manni Sipre crebbe velocemente iniziando a dedicarsi alla pre-lavorazione di prodotti siderurgici: dagli storici stabilimenti di Verona e Mozzecane, attraverso una serie di acquisizioni siamo arrivati a Crema, Udine e Ascoli Piceno. Negli anni 80 abbiamo avviato un nuovo business nella produzione di pannelli sandwich coibentati creando la Isopan Spa: abbiamo attuato una politica di localizzazione sui mercati internazionali aprendo sedi in Romania, Spagna, Germania, Russia e Messico. Oggi il Gruppo Manni, attraverso le due unità di business (acciaio e pannelli), resta sempre di proprietà famigliare e arriva a un fatturato circa 600 milioni di euro con circa 1.200 dipendenti tra Italia ed estero. Nell’ultimo decennio abbiamo ulteriormente differenziato la nostra attività puntando sul mondo dell’energia sostenibile. Manni Energy si occupa della costruzione e gestione di piccoli parchi fotovoltaici e eolici. L’ultima nata è Manni Green Tech, specializzata nell’edilizia off-site, che sfruttando l’esperienza dell’azienda puntando alla costruzione di edifici sostenibili.
Io personalmente, come figlio di una socia di minoranza, ho iniziato in azienda subito dopo il servizio civile lavorando a Frosinone nella sede della Isopan. Dopo aver girato parecchio all’estero, alla fine degli anni ‘90 mi è stata data la responsabilità di uno stabilimento di Manni Sipre. Dall’inizio degli anni 2000 sono poi entrato nel Consiglio di amministrazione del gruppo. Anche nell’ultimo decennio, partendo dalla grave crisi del 2008 fino ai giorni nostri, in mezzo a tante difficoltà siamo sempre riusciti a essere un punto di riferimento nel nostro settore.
Quali sono state le strategie messe in campo dalla sua azienda per affrontare la crisi legata alla pandemia?
Durante la pandemia abbiamo mostrato una capacità di reazione davvero notevole. Per noi è stato complicato, visto che ci occupiamo di lavorazioni pesanti: pensiamo alle officine dove anche solo mantenere il materiale igienizzato si rivela impossibile. Ciononostante abbiamo messo in atto protocolli precisi e costituito un’unità di crisi centralizzata a livello di gruppo. Abbiamo creato una matrice delle best practice che ciascun capo settore doveva seguire: sulle righe gli obblighi di legge da seguire, sulle colonne il modo in cui noi andavamo a risolvere un determinato problema. Questo tipo di attività è stato molto apprezzato dagli organi competenti e ci ha consentito di continuare a lavorare. Noi non eravamo tra le attività autorizzate a rimanere aperte durante il primo lockdown: abbiamo dovuto richiedere una lunga serie di autorizzazioni in base alle filiere di appartenenza dei nostri clienti. E’ stato necessario mettere in piedi una notevole macchina burocratica.
Nella seconda parte del 2020 abbiamo iniziato un buon recupero e abbiamo chiuso l’anno con un calo dei volumi dell’8-9%, contenendo le perdite grazie alla flessibilità che siamo riusciti a mettere in atto durante l’emergenza
Di tutto questo sforzo fatto per fronteggiare l’emergenza, c’è qualcosa di buono che rimarrà anche in futuro?
Abbiamo imparato molte cose. Dal punto di vista pratico, come si può lavorare salvaguardando la situazione igienico-sanitaria. Noi imprenditori poi abbiamo capito quanto sia utile organizzare delle strutture “paracadute” davanti a rischi esogeni anche gravi come è stato il virus. Infine, forse la cosa più importante: è divenuto chiaro che non possiamo aspettare gli eventi, ma serve mettere in atto piani di riposizionamento innovativi e veloci. Solo le aziende che da questi eventi imparano qualcosa potranno in futuro continuare a camminare. Noi abbiamo colto l’occasione per riorganizzare, per ripensarci, per prendere delle decisioni che erano in sospeso da tempo: l’emergenza ci ha dato più consapevolezza e coraggio.
Quali difficoltà sta generando alla sua azienda il recente balzo del costo delle materie prime, tra le quali anche l’acciaio? E quale può essere la soluzione del problema?
C’è stata una rivoluzione del tutto inaspettata che mette a repentaglio la possibilità di operare. Da novembre 2020 i costi dei materiali sono aumentati di circa il 65%. Per noi che lavoriamo come distributori e centro servizi la situazione è molto complicata. A monte, dobbiamo subire l’imposizione dell’oligopolio delle acciaierie, gestito da pochissimi nomi a livello mondiale ed europeo. A valle, abbiamo clienti con i quali abbiamo fatto progetti a lungo termine, ma ora il prezzo del materiale non ha più attinenza con la realtà: si tratta in gran parte di realtà medie e piccole che non hanno la possibilità di fronteggiare questi aumenti e quindi noi ci troviamo a fare da cuscinetto. Pur essendo finanziariamente forti, questo ci espone comunque a grossi rischi. Stiamo lavorando in condizioni critiche: non è corretto sentir dire che chi lavora nella filiera dell’acciaio ora sta facendo i soldi.
Come risolvere la situazione? Sarebbe necessario aumentare e adeguare la quota di produzione italiana e europea. Oggi la quota europea di produzione dell’acciaio è del 10-15%, mentre il 52% a livello globale è cinese. In questo scenario è inevitabile che chi detiene le quote destinate a Europa e Italia si permette di valorizzarle a piacimento. Avere una produzione propria di acciaio cospicua è fondamentale per mantenere tutta la meccanica italiana ai primi posti dello scenario europeo. Inoltre, abbiamo grandi difficoltà anche per le clausole di salvaguardia che l’Ue impone sulle importazioni, contingentando il materiale in entrata. Questo non ci consente di avere mano libera: la politica dei dazi alla lunga genera solo problemi. Va invece riequilibrata la capacità produttiva tra i vari Paesi: bisogna fare il tifo per l’acciaio italiano.
La transizione verde verso un modello economico ambientalmente sostenibile è uno dei cardini del Recovery Fund Ue. Quale può essere il ruolo dell’acciaio in questo contesto nei prossimi anni?
La sostenibilità è un faro che illumina i percorsi delle aziende che vogliono guardare al futuro. E’ fondamentale aumentare gli investimenti verso una transizione green anche per l’acciaio, puntando sempre più sulla produzione dal riciclo di rottame e diminuendo l’uso di minerale ferroso e carbone. Tuttavia, senza qualche compromesso a livello politico è impossibile trovare oggi una soluzione a questi problemi: non si può spegnere del tutto la macchina per poi vedere cosa accade, è un processo che va accompagnato nei prossimi anni.
Ritiene che il Recovery Fund sia lo strumento giusto per rilanciare l’economia italiana?
Io ci credo molto, ma bisogna dare questi fondi in mano a una struttura che ci consenta di investirli bene. E’ chiaro che in questo momento stiamo diventando sempre di più Europa, condividendo il debito e distribuendo i fondi in modo proporzionale: è un modo per arrivare ad avere sempre più una politica comune.
Lei è anche presidente della sezione Metalmeccanica di Confindustria Verona: come vede la situazione del comparto nel suo territorio e in Italia?
Da un sondaggio tra i consociati della metalmeccanica veronese fatto alla fine del 2020 è emerso che mediamente la situazione è simile a quella di Manni: fino a giugno 2020 perdite tra il 16 e il 20%, per poi chiudere l’anno attorno al -10%. Gli imprenditori ora mi riferiscono di una grande esplosione della domanda: a mio modo di vedere la crescita annua stimata attorno al 5% è sottovalutata. Nel nostro settore la ripresa mi sembra superiore. La grande difficoltà, soprattutto per le aziende più piccole, è legata a prezzi e scarsità delle materie prime che non permettono di dare risposte ai clienti. Sta aumentando sempre più il gap tra grandi e piccoli: credo che servirebbe qualche legge per incentivare fortemente le reti di aziende e le aggregazioni, sull’esempio degli incentivi di Industria 4.0 che hanno favorito l’innnovazione e la digitalizzazione di molte imprese, compresa la nostra.
Il governo ha fatto abbastanza per sostenere il settore industriale durante la crisi?
Nella situazione di emergenza il governo ha agito molto bene: sono state fatte le uniche cose possibili, e in maniera accettabile. Criticare con il senno di poi è sempre troppo facile. Le decisioni prese hanno comunque consentito al mondo della metalmeccanica di lavorare e di garantire continuità: in quella situazione non era affatto scontato.
L’Italia secondo lei è in ritardo rispetto ai maggiori competitor internazionali?
I dati ci dicono che in Europa la nostra manifattura è superata solo da quella tedesca, e il gap secondo me si è anche ridotto. Non siamo secondi a nessuno: non abbiamo da imparare nulla nel campo della metalmeccanica, tutti ci riconoscono un altissimo livello. Il problema è la sostenibilità del nostro modello: a livello burocratico abbiamo un handicap rispetto ai nostri competitor. Le riforme verso la semplificazione sono essenziali per l’industria. L’altro vulnus sono le infrastrutture: bisogna riprendere a investire sui trasporti, ad esempio sull’alta velocità ferroviaria e sul trasporto merci su rotaia. Non sono soltanto slogan, ma due driver fondamentali per fare in modo che la posizione dell’industria italiana si consolidi: non abbiamo bisogno di altro.
Come vede la sua azienda di qui a 5 anni?
Le nostre linee guida sono sostenibilità, internalizzazione e innovazione. Personalmente vedo un’azienda sempre meno concentrata sui volumi e più focalizzata a generare valore con i servizi legati al mondo dell’acciaio. Vedo una trasformazione verso l’intelligence a discapito della commercializzazione: siamo nati e partiti da lì ma ci stiamo evolvendo verso qualcosa di diverso.