
La pandemia ha accentuato le difficoltà del comparto: nel 2020 la produzione italiana di acciaio è scesa dell’11,9%. Si guarda anche al Recovery Fund per una spinta a un produzione più ecosostenibile.
In questo articolo parleremo di:
- I numeri della siderurgia italiana
- Boom nel dopoguerra e successivo declino
- Quanto rimane strategico l’acciaio
- La sfida della sostenibilità ambientale
Le peripezie dell’ex Ilva di Taranto, passata nelle mani del colosso mondiale ArcelorMittal, sono lo specchio delle difficoltà di un settore come la siderurgia che in Italia ha avuto un ruolo fondamentale nel boom economico del secondo dopoguerra. L’industria pesante nel nostro Paese oggi si trova a fare i conti con sfide cruciali: da un lato il baricentro globale che si sposta sempre più verso l’asse cinese, dall’altra la necessità di imboccare con decisione la strada della transizione ecologica, decarbonizzando la produzione con l’impiego di tecnologie e processi ecosostenibili.
I numeri sulla produzione di acciaio elaborati da Federacciai fotografano un comparto in contrazione, con volumi in calo già da prima dell’inizio dell’emergenza Covid. Nel 2020, secondo stime ancora provvisorie, l’Italia ha superato di poco i 20 milioni di tonnellate di acciaio, con un calo dell’11,9% rispetto al 2019 quando già si era registrata una flessione annua del 5,3%. Questa contrazione ha portato l’Italia ad uscire dalla top ten dei produttori mondiali, guidata nel 2020 dalla Cina con 1.053 milioni di tonnellate di acciaio, più della metà dei 1.864 milioni di tonnellate globali (dati della World Steel Association). In Europa, il nostro comparto rimane ancora al secondo posto superato solo dalla Germania.
Il confronto con il passato è eloquente: l’Italia ha toccato il picco di produzione di acciaio nel 2006 con oltre 31,6 milioni di tonnellate. Da allora quindi è stato perso circa un terzo del volume. I livelli attuali sono simili a quelli del 1974, quando l’Italia produsse 23 milioni di tonnellate di acciaio alla fine di due decenni di autentico boom della siderurgia. Il consumo apparente di acciaio, dato dalla somma della produzione nazionale e delle importazioni al netto delle esportazioni, passò da 4 milioni di tonnellate nel 1952 a 22,8 milioni di tonnellate nel 1974, rappresentando la vera e propria età dell’oro per un comparto che affonda le proprie radici nella prima metà del XIX secolo. La crescita esponenziale, legata all’impennata della domanda di prodotti siderurgici generata dal boom economico, fu accompagnata anche da massicci investimenti pubblici tramite l’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale) per creare poli produttivi soprattutto nel Mezzogiorno, visti come possibile volàno per lo sviluppo a 360 gradi del Sud Italia. Proprio il complesso di Taranto fu inaugurato nel 1965 dall’allora Italsider e crebbe fino a diventare il maggior sito industriale per la lavorazione dell’acciaio in Europa, con oltre 11mila dipendenti.
Già dalla metà degli anni Settanta è però iniziato il declino, innescato dalla caduta dei consumi siderurgici che hanno portato a un eccesso di capacità produttiva inutilizzata. A seguire è arrivato il progressivo disimpegno statale. Emblematico il caso Taranto, con gli stabilimenti passati nel 1995 al Gruppo Riva e poi, a seguito del commissariamento dopo il sequestro relativo all’inchiesta per reati ambientali, a ArcelorMittal.
Nonostante tutte le difficoltà, resta indubbio che la siderurgia rappresenti ancora oggi un settore strategico: è alla base della produzione di auto, elettrodomestici e dell’edilizia, solo per fare qualche esempio. E dà lavoro a circa il 2% di tutti gli occupati nell’industria manifatturiera, nonostante la forte emorragia di posti negli ultimi anni. L’acciaio peraltro è un materiale infinitamente riciclabile, e quindi si inserisce al meglio in un’economia circolare. La sfida della sostenibilità riguarda l’acciaio cosiddetto primario, prodotto in altoforno: genera fino a 2.000 grammi di CO2 per ogni chilogrammo sfornato, quattro volte più che con il riciclo fatto tramite forni elettrici ad arco. Necessaria dunque, sia per rispondere agli obiettivi fissati dall’Ue in termini di emissioni sia per mantenere la competitività, la riconversione dei siti produttivi più vecchi e inquinanti. Uno stimolo può arrivare dagli investimenti del Recovery Fund, visto che la decarbonizzazione della siderurgia risponde appieno agli obiettivi di “rivoluzione verde e transizione ecologica” indicati da Bruxelles. I progetti già ci sono: uno degli ultimi è firmato da Danieli, Leonardo e Saipem e prevede un nuovo processo con forni ad alimentazione elettrica ibrida integrati a impianti di riduzione diretta del minerale di ferro per mezzo di una miscela di metano e idrogeno, per ottenere un acciaio green.